Come in Bielorussia torturano gli arrestati
14 agosto 2020 | Elizaveta Foxt, Anna Pushkarskaya, Oksana Chizh, BBC
18+. Attenzione: l’articolo contiene la descrizione di scene di violenza.
In Bielorussia, dopo le azioni di protesta che si sono verificate in seguito alle elezioni presidenziali, migliaia di persone sono state fermate, arrestate e maltrattate. Molti sono stati brutalmente picchiati, umiliati e a molti è stato negato il cibo. I corrispondenti di BBC hanno parlato con alcune persone che hanno subito brutali maltrattamenti nei furgoni della polizia, carceri e dipartimenti di polizia.
Alina Beresneva, 20 anni
Nella notte del 9 agosto stavo tornando con amici dal centro città e siamo capitati sotto i colpi delle forze speciali in tenuta antisommossa (OMON). Noi non stavamo protestando, ma ciononostante mi hanno preso e sbattuto a terra, ho ancora i graffi sul braccio, e ci hanno caricati sull’autobus.
Ci hanno portato in via Okrestina, (nel centro di detenzione preventiva per reati amministrativi della città di Minsk). All’ingresso c’era un uomo, lui diceva: «Muovetevi figli di puttana!». Gli ho chiesto: «Perché’ ci parlate in questo modo?» Così mi ha preso per il collo e spinto contro il muro dicendo: «Figli di puttana, sguardo a terra! Così saprete dove camminare e dove passeggiare».
Eravamo 13 ragazze detenute in una camera progettata per quattro persone. Chiedevamo all’agente se potevamo fare una telefonata, se potevamo chiamare un avvocato, al che ci rispondeva: «Avete visto troppi film americani? Questa non e’ l’America, qui non avete nessun diritto».
E’ passata la notte, più o meno alle 12 di mattina hanno iniziato a contarci, ci chiedevano nome e cognome. In quel momento capiamo che non abbiamo toccato cibo nelle ultime 24 ore, eravamo tutte affamate e avevamo i crampi allo stomaco dalla fame, abbiamo iniziato a chiedere il cibo. Eravamo pronte a pagare. La risposta era: «No puttane, così saprete chi votare». Le risposte ci hanno scioccate. Era terribile.
Poi arrivò la sera, e abbiamo iniziato a notare, e noi avevamo una fessura tra la porta e il passavivande, che le persone venivano condotte fuori ed erano costrette a firmare qualcosa, anche se gridavano e protestavano. Poi arrivò il nostro turno a firmare questi protocolli. Con le ragazze ci siamo messe d’accordo di rifiutare tutto quello che ci stavano scrivendo sul protocollo.
Cercai di dare una lettura al protocollo e così dissi: «Per favore vorrei sapere quello che sto firmando». La risposta: «Figlia di puttano ora te lo racconto io, muoviti a firmare altrimenti ti [***] (violento) e ti sbatto dentro per altri 20 giorni». Ero sotto shock, stavo piangendo, i segni delle mie lacrime sono rimaste su quel foglio. Ho scritto «Sono d’accordo», ho lasciato la mia firma e non sapevo nemmeno con cosa ero d’accordo.
Ci promettevano che dopo la firma ci avrebbero rilasciate lo stesso giorno. Pensavamo che avremmo dimenticato tutto come un brutto incubo, e invece no. Ci hanno portato di nuovo in cella, poi ci hanno spostato in un’altra dove c’erano già altre 20 ragazze, in totale siamo diventate 33. Era una presa in giro.
Il momento peggiore era quando non avevamo cibo. Sono una persona forte, ma in quel momento mi hanno spezzato. Stavo semplicemente seduta, avevo dei crampi così forti da non sapere cosa fare. Stai seduto lì e capisci che il tuo organismo sta cercando di farcela ma non ci riesce. E stai seduto come un bambino. Sei arrabbiato, sei senza forze a nessuno ti aiuterà.
Non sapevo cosa fare, stavo seduta rannicchiata, stavo sudando freddo e così hanno chiamato un dottore. A malapena sono riuscita ad alzarmi e attraverso il passa vivande sono riuscita a dire: «Sono riesco a reggermi in piedi, sto male, mi gira la testa». La dottoressa mi risponde: «La prossima volta saprai dove passeggiare». Alla fine mi hanno dato una pillola di Validol, a stomaco vuoto. Ovviamente non la presi, per non farmi ancora più male.
E’ passata ancora una notte. Avevamo deciso che, se non ci avessero portato qualcosa da mangiare, avremmo iniziato ad urlare e chiamare aiuto. Per l’11 agosto sono arrivati ancora altri furgoni. Vedevamo dalla finestra come stavano maltrattando i ragazzi. Loro erano mezzi nudi tutti inginocchiati col sedere all’insù, le mani dietro la nuca. Se qualcuno si muoveva, lo prendevano a bastonate.
Ad una delle nostre ragazze venne il ciclo, lei chiese della carta igienica. Le risposero: «Pulisciti con la maglia». Alla fine lei si toglieva l’intimo, lo lavava e lo indossava di nuovo finché non si sporcava di nuovo. Poi, quando c’è stato il cambio delle guardie, arrivo’ una signora che ci porto’ la carta igienica, la idolatrammo.
Le finestre davano sull’esterno. Noi vedevamo le persone che gridavano «Rilasciate i nostri bambini!» Nella camera vicina c’era un uomo che urlava molto forte, aveva problemi con la gamba. Per tre giorni non gli hanno chiamato il pronto soccorso, alla fine lui non ce la fece più ed inizio’ ad urlare dalla finestra per farsi sentire dalle persone che stavano fuori. Così uno degli agenti apri’ la porta, questo lo abbiamo sentito molto bene, iniziò a picchiarlo e disse: «Stronzo, inizia a riscaldare il tuo culo, che ora ti ributto tutto il sangue indietro».
Se ci fosse la possibilità di punire tutte quelle persone, lo farei volentieri. Tutto questo ha separato la mia vita in prima e dopo. Prima volevo entrare nelle forze, essere un agente di polizia, proteggere le persone, i diritti dell’uomo, ma dopo che passai lì il mio tempo, non lo voglio piu. Ora voglio semplicemente andarmene da questo Paese, prendere tutti i parenti e amici, per non restare più qui.
Sergey (nome cambiato), 25 anni
Mi hanno fermato il terzo giorno delle proteste, l’11 agosto, vicino ad un centro commerciale. Non erano semplicemente forze speciali, era una divisione speciale, «Almaz» (diamante) – l’elite, che lotta contro il terrorismo.
Quando abbiamo visto che ci sta avvicinando una colonna di equipaggiamento speciale, abbiamo capito che potevamo solo nasconderci. Ero seduto nascosto e per qualche tempo non riuscirono a trovarmi. Vedevo le persone messe in ginocchio sul piazzale davanti al centro commerciale che venivano picchiate. Uno dei ragazzi e’ caduto, su di lui si inchinò l’agente e ci siamo incrociati con lo sguardo. In quel momento pensai che era la mia fine.
Anch’io sono stato portato fuori. Quelli che dicevano qualcosa venivano picchiati. Mi hanno messo a terra, mi hanno manganellato per un po’. Con me avevo uno zaino in cui avevo dei respiratori, delle mascherine. Uno degli ufficiali ha guardato dentro lo zaino e ha detto: «Ehi! Questo sembra uno degli organizzatori». Hanno iniziato a cercare il proprietario.
Ho deciso di non ammettere che fosse di mia proprieta’ – capivo che se l’avessi fatto avrei patito maltrattamenti peggiori. Dopo qualche minuto di bastonate mi hanno chiesto di nuovo se lo zaino fosse mio. Ho risposto che non era mio. Tre persone delle forze speciali in tenuta antisommossa mi hanno condotto dietro l’angolo del centro commerciale. Avevo le mani legate dietro la schiena. Hanno preso una bomba a mano, non quella antisommossa perché so le differenze, e hanno detto che ora tolgono la miccia, me la mettono nei pantaloni così salto in aria e loro poi diranno che sono morto a causa di una granata fatta da me. Cosi’ nessuno potra’ dimostrare nulla e loro non verranno indagati.
Io continuavo a dire che lo zaino non era mio. Mi hanno messo la granata nei pantaloni e si sono allontanati. Poi si sono avvicinati di nuovo, mi hanno detto che sono uno stronzo insolente e hanno iniziato a picchiarmi di nuovo. Mi picchiavano sull’inguine, sulla faccia. Mi hanno ordinato di portare lo zaino con i denti. Mentre tornavamo nel furgone, continuavano a picchiarmi in faccia. Se facevo cadere lo zaino – mi picchiavano. Ora ho i denti scheggiati.
MI hanno caricato sul furgone, dentro c’erano già 20 persone. Ci accatastavano l’uno sull’altro. Sopra si metteva un gente che camminava sulle persone. A diverse persone si sono gonfiate mani e le braccia a causa delle fascette, chi si lamentava veniva picchiato sulle mani. Nel nostro furgone c’era un ragazzo asmatico, ha iniziato a soffocare. Uno delle forze speciali gli si e’ avvicinato, gli ha messo il piede sul collo, ha iniziato a soffocarlo e ha detto: «Se crepi, non ce ne frega».
Quando ci hanno portato fuori, per terra c’era della vernice. Mi hanno cosparso la faccia di vernice, ci hanno segnato in questo modo. Poi mi hanno caricato su un’altra macchina. Lì c’erano quattro agenti con i manganelli. Lì ti mettono a terra e ti picchiano sulle gambe dicendo: «Questo e’ per non farti correre. Hai finito di correre adesso». Lì ero da solo, forse anche gli altri sono passati di li’. Non ho visto che picchiassero pure le ragazze.
Poi mi hanno riportato nel furgone. C’erano anche due ragazze più o meno intorno ai 18 anni. La loro unica colpa era che loro alzavano la testa e indicavano chi si sentiva male. Dopo qualche indicazione del genere ad una di loro si e’ avvicinato l’agente, l’ha presa per i capelli e ha iniziato ad urlare. In qualche modo le ha rasato una parte dei capelli e ha detto: «Siete delle troie, vi portiamo al centro di detenzione, vi buttiamo in cella degli uomini così vi stuprano e dopo vi lasciamo in una foresta».
C’era un ragazzo che non voleva sbloccare il suo cellulare. Lo hanno spogliato e gli hanno detto se non dirà la password lo stupreranno con i manganelli. Allora lui gli ha dato la password e lo hanno buttato a terra dagli altri.
Ci hanno portato in un qualche punto di scambio. Siamo scesi fuori dal furgone. C’era un corridoio umano di 40 persone circa che portava ad un altro autobus. Quando passi in questo corridoio, ti picchiano. Se cadi, ti picchiano sulle gambe e sulla testa finché non ti rialzi. Quando sono arrivato fino all’autobus sono caduto per il colpo ricevuto. Così ho attirato l’attenzione di altri agenti perché avevo la maglietta che esprimeva solidarietà con i detenuti politici russi. Perciò mi hanno dato una dose maggiore di manganellate. Poi mi hanno preso per mani e piedi e mi hanno buttato sull’autobus, come un sacco.
Mi urlavano contro, mi dicevano di strisciare in un punto. Io strisciavo lentamente, perciò mi picchiarono di nuovo. Quando sono arrivato, non riuscivo a muovermi. Sono stato raggiunto da un altro agente ancora, mi ha messo il piede sulla schiena e ha iniziato a prendere a manganellate la testa, questo manganello però non era quello di gomma, era quello con l’asse metallico. Lo capii quando, dopo il primo colpo, persi conoscenza. Non sentii più nulla.
L’agente picchio per un po’ di tempo, poi sopra di me buttarono altre persone. Non riuscivo a respirare. Quelli che stavano sopra continuarono ad essere malmenati. Era una strana scelta, non si riesce a capire dove si sta peggio, sopra dove hai l’aria ma ti picchiano o sotto dove soffochi ma non ti picchiano.
Poi ci hanno scaricato, c’è stato un altro corridoio dove ci picchiavano, ci hanno trasferito in un altro furgone, che aveva delle celle dentro. Queste celle sono progettate per tre persone, qui ne hanno messe otto. Ero schiacciato contro la parete e ho visto colare il sangue, allora capii che avevo la testa spaccata. Ad un certo punto persi conoscenza, questo si ripete’ un paio di volte.
Quando ci portarono al centro, a causa delle ferite e della mancanza d’aria non mi reggevo in piedi. Sono caduto fuori dalla cella. Gli agenti dissero «Sembra che questo sia cotto». Mi hanno buttato fuori dal furgone e lasciato lì a terra. Si sono subito avvicinati dei medici, hanno detto che avevo il cranio spaccato, tutto malmenato, sicuramente c’è il trauma cranico. Avevo la nausea, la saliva mi colava dalla bocca. Dopo questo non mi hanno più toccato. Gli stessi agenti si chiedevano se morirò o vivrò.
Per portare fuori tutti non c’erano abbastanza ambulanze, sono stato a terra ad aspettare per un’ora. Alla fine mi hanno caricato sull’ambulanza. In macchina chiedevo di essere portato a casa e non in ospedale perchè tutti quelli ricoverati in condizioni accettabili vengono poi rispediti al centro di detenzione. Ma a causa della possibilità di un trauma cranico e della gamba rotta mi hanno portato in ospedale.
I medici capiscono che le persone vengono torturate e cercano di portare fuori più gente possibile. In somma mi hanno messo 12 punti su tre ferite, fatto l’operazione, radiografie. Dopo qualche ora passata in ospedale gli amici mi hanno riportato a casa. Quando sono stato preso non avevo con me né passaporto né telefono, la mia identità non è stata scoperta.
Mentre mi picchiavano, per la maggior parte del tempo non pensavo quasi a nulla. Avevo paura, non mi aspettavo una violenza del genere. Pensavo come raccogliermi per mantenere la salute. Se devo essere sincero pensavo all’immigrazione. Se non cambierà nulla, avrò paura a vivere in un paese dove ti possono uccidere in qualsiasi momento e nessuno verrà condannato per questo. Ho paura a pensare che vicino a noi vivono coloro che lavorano in queste strutture, che torturano le persone e continuano a vivere come se niente fosse.
Oleg, 24 anni (nome cambiato)
Io sono un camionista, non sono vicino alla politica, non sono un nemico del popolo. Sono tornato una settimana fa da una tratta in Siberia. Ho visto su internet quello che sta succedendo. Ho visto che stanno uscendo i bambini, pensionati Ho pensato che, io un ragazzo giovane, lascerò uscire gli altri? E sono andato a manifestare.
Mi hanno preso [la notte] dal 10 all’11, verso mezzanotte. Ho sentito una botta vicino a me. Sono rimasto stordito. Ho visto che per terra, vicino a me c’è un ragazzo. Volevo alzarmi per aiutarlo e ho visto che letteralmente gli si era quasi staccata la gamba. La bomba antisommossa lo ha raggiunto al ginocchio.
Non riuscivo a trovare il telefono, così sono corso a cercare soccorso. C’era un’ambulanza che passava vicino e ho chiesto ai medici di raggiungere il ragazzo. I medici hanno chiesto a me e ad altri ragazzi di restare ad aiutarli. A venti metri di distanza c’erano le forze antisommossa, con gli scudi, armi e mitra.
Loro non ci prendevano, trasmettevano agli altri di non toccarci. Ma poi sono arrivati da dietro, ci hanno messo subito a terra, manganellato sulle gambe. Ci hanno messo le braccia dietro la testa e ci picchiavano con i piedi. Il medico cercava di spiegare, gridava: «Cosa state facendo? Noi non ce la facciamo da soli, queste persone ci stanno aiutando!».
Ci hanno rialzato ma dopo un minuto e mezzo ci hanno raggiunto di nuovo, ci hanno preso a manganellate. Prima di raggiungere il furgone ci picchiavano, nel furgone ci picchiavano e gridavano: «Stronzi pezzi di merda». Ci picchiavano con i piedi, mani, i colpi arrivavano su tutto il corpo. Sul furgone con noi c’era un uomo sulla cinquantina, un invalido di secondo gruppo. Lui ha chiesto una pillola, ha detto che si sentiva male. Lo picchiavano in continuazione.
Quando la cella grande dentro il furgone è stata riempita, hanno cominciato a smistarci nelle celle più piccole, eravamo sei persone. Ci mancava l’aria, c’era solo una piccola finestrella. Siamo stati seduti in quella sauna per un’ora e mezza. Dopodichè ci hanno portato in via Okrestina. Quando scendevamo correndo dall’autobus, si era creato un corridoio umano degli agenti della polizia e delle forze speciali. Noi correvamo verso il muro e loro ci picchiavano. Sorridevano, ci dicevano: «Volevate dei cambiamenti? Avrete i vostri cambiamenti!»
Per un’ora e mezza siamo stati inginocchiati con la testa all’ingiù davanti al muro di cemento. Per terra c’era ghiaia, ho ancora le ginocchia tutte blu. Se qualcuno si lamentava o si indignava veniva picchiato. Un uomo urlava che era un ufficiale dei servizi segreti (FSB). Lo hanno circondato, tirato un pugno nello sterno, poi almeno cinque persone lo massacrarono con i manganelli. Un reporter russo è stato malmenato, urlava da far paura. Picchiavano per qualsiasi domanda gli facevi.
Mentre stavo lì in piedi, non pensavo a nulla in particolare. Mi dispiaceva tantissimo per le persone che venivano picchiate. Anche a me ne arrivava periodicamente. Poi ci hanno portato nell’edificio, mentre correvamo per lasciare gli effetti personali, continuavano a picchiarmi con i manganelli. Dopo ci hanno condotti nel cortile, lì c’erano circa 130 persone, tutti stavano l’uno sopra l’altro. Una volta in due ore dieci persone venivano condotte in bagno e una volta all’ora ci davano due bottiglie d’acqua da due litri ciascuna. Alcuni non facevano in tempo neanche a guardarle che l’acqua finiva.
Poi ci hanno condotto fuori di nuovo, durante il tragitto ci picchiavano, ci hanno messo in ginocchio e hanno iniziato ad interrogarci. Dopodichè ci hanno rimandato in camera e mentre correvamo continuavamo a prendere botte. In camera c’erano 120 persone e in ventiquattr’ore ci hanno dato solo l’acqua e una pagnotta per tutti.
La mattina successiva c’erano i processi, in quel momento siamo rimasti circa in 25. A me hanno concordato il rilascio, non mi hanno arrestato. Ma dopo il processo mi hanno tenuto in cella fino a sera. I miei effetti personali non sono stati ritrovati, mi hanno promesso di restituirli dopo. Mi hanno condotto fuori, mentre camminavo vedevo una folla di ragazzi sdraiati a faccia in giù. Li malmenavano, loro gridavano dal dolore. E dall’altra parte del muro c’erano i loro parenti.
Un poliziotto che stava con noi diceva che è una cosa terrificante. Mentre ci conducevano verso l’ingresso posteriore, ci hanno detto che se ci avviciniamo ai parenti e ai giornalisti, ci riprenderanno e saremo blu per le botte. Ma quando siamo usciti siamo stati accolti come eroi, ci hanno offerto le sigarette, hanno dato i telefoni per chiamare i nostri cari. Alla fine ho i piedi, schiena e scapole completamente blu.
Marylya, 31 anni
Il 12 agosto dopo le 23 stavo tornando in macchina con amici a casa sul viale deserto, a Minsk non c’era più tanto traffico come nei giorni precedenti, quando bloccavano le macchine. E poco lontano dalla Stela (monumento ai caduti), dove le persone si riunivano il giorno delle elezioni, ci ha fermato la polizia stradale e ci ha indicato di scendere sulla banchina. Oltre alla macchina della stradale lì erano fermi anche un paio di furgoni. Si sono avvicinate le persone in nero, con il passamontagna neri, credo di aver intravisto delle toppe del ministero degli interni ma non ne sono sicura. Erano in tanti, solo per le nostra macchina erano in tre. Non si sono presentati, ci hanno detto di uscire dall’auto.
Ci hanno detto di sbloccare i telefoni, poi gli agenti hanno iniziato a vedere le nostre foto e video. Mi hanno condotto da un’altra parte mentre hanno lasciato i ragazzi con le mani sul cofano. I ragazzi hanno sbloccato i loro cellulari, hanno mostrato i video delle notti precedenti, come le macchine stanno nel traffico, suonano eccetera. Sappiamo che per legge non siamo tenuti a mostrare queste cose, ma quando vicino a te sta una marea di persone in nero con i mitra o qualche altra arma… hanno iniziato a dire parolacce, gridavano: «Volete cambiamenti? Vi mostriamo noi i cambiamenti!» Hanno iniziato pensare a cosa fare con noi, alla fine hanno deciso di portarci alla centrale.
Hanno preso le chiavi della macchina, ci hanno condotto nel bus, non abbiamo visto nemmeno la faccia dell’autista. Vicino a noi si sono seduti due con le armi, e qualcuno guidava dietro sulla nostra auto. Qui si sono ricordati di me, hanno detto di sbloccare il cellulare. Ho risposto: «Mi tremano le mani». Uno di loro ha addirittura detto: «Lasciala stare, a cosa ti serve». Il secondo, il più aggressivo, mi ha comunque preso il cellulare e ha iniziato a dire: «Ecco, lì ci sono i video delle proteste…»
Ci hanno condotto nel cortile interno della centrale di polizia, lì per terra stavano sdraiati altri ragazzi di una macchina che è stata portata in precedenza e una ragazza stava vicino al muro. Mi hanno messo poco lontano da lei, pure con la faccia rivolta contro il muro, mentre i ragazzi sono stati messi contro l’altro muro. E ho sentito i colpi e ho capito che stavano picchiando mio marito, perchè chi picchiava diceva: «A che ti serve il braccialetto bianco?». Era un braccialetto bianco di gomma sul polso di mio marito che significava che supportiamo Tikhanovskaya e che siamo per un cambiamento pacifico. Io volevo guardare, ma chi mi stava dietro mi hanno detto: «Non muovere la testa».
Sono arrivati a scrivere i nostri dati. Mi si è avvicinato un agente, apparentemente della centrale di polizia, senza maschera e in borghese, non sono riuscita a vedere nemmeno la sua faccia, perchè ero rivolta con la faccia al muro. Mi ha detto di immettere la password del cellulare, ma diceva «Mashenka, se Le serve qualcosa chieda pure», un agente che faceva il buono.
Finchè ho sbloccato il telefono, sono riuscita ad eliminare Telegram e ancora qualcosa perchè avevo sentito che dicevano che avrebbero guardato le nostre iscrizioni. L’agente mi ha detto: «Ora trovo cosa ha eliminato», ma non ci è riuscito.
I ragazzi e la ragazza dell’altra macchina sono stati portati da qualche parte e poi anche a noi hanno iniziato a chiamare per cognome. Mentre camminavo, uno che somigliava alle forze speciali ha iniziato a gridare di abbassare la testa. Ma il poliziotto in borghese ha detto: «Non la toccare, è tutto a posto». E qui è successa una cosa. Ci hanno già detto di riprendere le nostre cose, ma ad uno dei miei amici è iniziato a squillare il cellulare, chiamava la moglie, e lui aveva la suoneria con la canzone «Peremen» di Viktor Tsoy. Gli hanno ordinato di abbassare la suoneria, qualcuno dietro ha detto: «Non li rilasciate, non hanno ancora imparato la lezione».
Ci hanno condotto e ci hanno messo contro un altro muro. I ragazzi – con le mani dietro la testa, io tenevo le mani semplicemente dietro la schiena. A mio marito, solo perchè ridacchiò, hanno manganellato le gambe, gli hanno detto di allargarle. All’inizio mi dissero che potevo stare come volevo ma poi è arrivato uno delle forze speciali e ha detto di allargare i piedi. Ogni volta arrivavano ordini diversi ed era difficile capire cosa volessero. Al ragazzo a cui si sono addormentate le gambe un agente ha permesso di fare gli squat ma poi è arrivato un altro agente gli ha tirato un calcio alle gambe e gli ha ordinato di rimettersi faccia al muro.
Ci stavano dietro le spalle e si beffavano di noi, ci dicevano: «Era meglio se stavate a casa». Al nostro amico si era addormentato il braccio e non gli permettevano di muoverlo, dicevano: «Se sei così debole, che ci stai a fare alle proteste». Parlavano per la maggior parte con le frasi che ho già sentito raccontare da altri conoscenti, che sono stati fermati: «Ci tirate addosso i Molotov», «è tutto pagato dall’occidente».
Alla fine abbiamo sentito che hanno portato un altro ragazzo e si sono sentiti i rumori ritmici dei manganelli contro il corpo, lo stavano picchiando brutalmente alcuni agenti. Lui chiedeva di non picchiarlo, ma loro bestemmiavano e continuavano. Era spaventoso. Poi lo hanno portato via e a noi hanno detto che saremmo rimasti lì fino alle sette di mattina,fino alla fine del loro turno. Poi qualcuno si è avvicinato e ha chiesto: «Chi è il più attivo qui? Tranne la ragazza». I suoi colleghi hanno iniziato a ridere e hanno indicato il nostro amico. E lo hanno costretto a fare flessioni, contavano, dicevano di fermarsi nella posa più scomoda e promettevano che se non fa la flessione come si deve lo picchieranno, il tutto accompagnato da beffe e bestemmie. Poi gli hanno detto di fare squat.
Poi ci hanno detto che ci rilasceranno senza fare protocollo: «Speriamo che non parteciperete a nient’altro e da nessuna parte». Siamo tornati a casa alle due di notte. I ragazzi hanno dei grossi lividi causati da manganelli. Ma non ci pensiamo neanche a fermarci, era il loro scopo principale- spaventarci, ma sono loro che hanno paura di noi e ci considerano come nemici.
Nikita Telizhenko, giornalista Znak.com, 29 anni
Sono andato al centro commerciale, dovevo comprare dei vestiti, perché in seguito alle azioni di protesta precedenti quelli che avevo si sono un pò consumati. Ho preso la busta con i vestiti. Sono arrivato fino a via Dvorez Sporta (Palazzo dello Sport) e a metà strada ho visto che tutti i giovani che scendevano alla fermata venivano direttamente caricati sui furgoni delle forze speciali. Ho iniziato a descrivere la scena per la redazione. Nel momento in cui lo stavo facendo, è arrivato un altro furgone da cui sono spuntate altre persone, mi hanno preso per le braccia.
Mi hanno preso il cellulare. Hanno deciso che se stavo scrivendo qualcosa sul telefono e ho la connessione internet, sono un coordinatore. Sul cellulare hanno visto le foto delle dotazioni militari utilizzate nelle proteste precedenti. Mi hanno caricato sul furgone e poi sul bus, nel quale sono stato seduto per due ore. Cercavo di spiegare che sono un giornalista, ma questo non gli importava.
L’orrore è iniziato vicino alla centrale del distretto Moskovskij, dove ci hanno portato. Aprivano i bus, torcevano le braccia alle persone. Se la testa è più alta di quello che serve, ti arriva subito una sberla con il manganello o con lo scudo. Ti trascinano a peso morto. Ho visto che al ragazzo in fila prima di me hanno sbattuto violentemente la testa contro lo stipite della porta solo per scherzo. Lui ha urlato, ha alzare la testa e gli è arrivata la manganellata.
Poi, quello che mi ha più perplesso, c’era «il tappeto umano». Ci hanno portato al primo piano e la prima cosa che ho visto erano le persone sdraiate a terra. Su di loro camminavano sia le forze speciali che noi. Ho dovuto calpestare un uomo perchè quando ho cercato di evitarlo mi è di nuovo arrivata una manganellata.
Sul pavimento c’erano sangue e urine. Ti buttano su quel pavimento e ti dicono che non puoi girare la testa. Sono stato fortunato ad avere la mascherina. Vicino a me c’era un ragazzo che ha cercato di girarsi, ma gli è arrivato un forte calcio dagli stivali militari, anche se era già stato fortemente malmenato. C’erano persone con le braccia spezzate a furia di botte, che non potevano muoverle.
Costringevano le persone a recitare preghiere. Hanno portato un ragazzo, che pregava: «Signore per favore non picchiatemi». Gli hanno detto che ora lo seppelliscono, gli conteranno i denti. Ancora un paio di colpi. Il ragazzo già si sta soffocando nel sangue e l’agente gli dice «Recita Padre nostro!». E tu stai lì e senti come un ragazzo con la bocca malandata recita «Padre nostro che sei nei cieli…».
Il momento più terrificante è quando tu stai lì seduto e le persone nei corridoi del piano di sotto vengono picchiate a tal punto che non ce la fanno più a parlare e ululano dal dolore. Tu giri la testa e vedi il sangue sul pavimento, le persone urlano, e sul muro vedi il cartellone con le foto dei migliori agenti tutti sorridenti, che fanno tutto ciò. E capisci di essere all’inferno.
Al cambio turno si è scoperto che due delle persone sono scomparse. Hanno capito che già iniziano a confondere le persone, ci hanno condotto nelle camere singole, 20-30 persone in ciascuna. Non c’era ventilazione, si poteva stare vicino al muro. Tra un’ora, a causa della condensa, tutto era bagnato. Quelli più in là con gli anni si sentivano male, un ragazzo è svenuto.
Poi più o meno dopo 16 ore di detenzione in centrale, hanno iniziato a condurci in modo molto brutale fuori e a buttare sul bus. Era vietato sedersi, le persone venivano ammassate in tre strati sul pavimento. Alcuna persone con seri traumi si sono ritrovate sotto, non riuscivano a respirare. Queste persone urlavano dal dolore, allora gli si avvicinava l’agente, gli tirava manganellate in testa, li umiliava. Tutto questo ricordava le torture della Gestapo, è difficile immaginare che una cosa del genere possa essere possibile nella vita quotidiana.
Era vietato andare in bagno. Quelli che chiedevano del bagno rispondevano di farsela nei pantaloni. Alla fine le persone davvero se la facevano sotto, defecavano anche. In quel momento le persone hanno compreso che era inutile chiedere qualcosa, già in centrale hanno capito che non avrebbero avuto alcun aiuto. Coloro che si lamentavano venivano brutalmente malmenati.
Quando il bus è partito, alle persone hanno permesso di separarsi. Ma se qualcuno cercava di alzare la testa oppure di appoggiarsi al sedile, veniva picchiato. Poi gli agenti si sono annoiati e ci hanno ordinato di metterci in ginocchio e cantare l’inno bielorusso. Questo è stato ripreso col cellulare. Mentre il bus viaggiava, le macchine passanti lo suonavano. Ma se gli automobilisti passanti sapessero cosa stesse accadendo dentro, non avrebbero suonato, avrebbero distrutto quel bus.
Ho perso il senno tra un’ora e mezza. Continuavo a dire «Scusatemi, sono un giornalista russo, che cosa ho fatto di sbagliato?» Ho iniziato a ricevere calcoli a manganellate sui reni, sul collo, sulla testa ma non ho ricevuto risposta. Con me c’era un ragazzo che diceva «Per favore sparateci, perchè ci torturate così». Gli rispondevano che nessuno sparerà a nessuno, perchè in carcere ci aspetta ancora più dolore e ci sarà una fila si agenti che ci prenderà a manganellate.
Quando ci hanno portato al centro di isolamento a Zhodino, ci hanno detto: «Dite addio alle vostre vite, ora vi uccideranno». Ma con nostro grande stupore lì ci hanno accolto normalmente. Le guardie si mostrarono crudeli solo finché le forze speciali non se ne sono andate. Le persone erano contente di essere in carcere, erano terrorizzati dall’idea di tornare in bus a Minsk con gli agenti speciali.
Lì ci sono stato per tre, quattro ore. È venuto a prendermi il colonnello, mi hanno condotto fuori, sono andati a cercare le mie cose. Quelli con cui sono stato dentro, erano contenti del fatto che mi stavano rilasciando, così avrei potuto raccontare quello che sta succedendo. All’uscita mi aspettava un rappresentante del consolato. Mi hanno espulso dalla Bielorussia con divieto di ingresso per cinque anni e mi hanno portato a Smolensk.
Se non fosse per il divieto, sarei tornato a lavorare in Bielorussia. Lì ci sono persone uniche. Percepiscono il cambiamento in modo positivo e sono uniti da un unico obiettivo.
Natallia, 34 anni
Camminavo con le amoche per strada, senza nessun problema. Ad un certo punto dietro di noi si è materializzata una folla che scappava dai corpi speciali e poi gli agenti stessi. Qualche agente ci ha sorpassato, ma uno che evidentemente si era stancato di correre se la prese con noi. Diceva: «Che ridi? Vedo che ti diverti. E che oggi ad un agente delle forze speciali è stato ferito in faccia con un coccio di bottiglia, che questo lo trovi divertente, si?» Io non ridevo, volevo che se ne andasse pacificamente.
Ma per qualche motivo questo lo ha alterato, mi ha trascinato nel furgone. Nel furgone c’erano già delle persone. Ci chiedevano: «Vi piace essere un pezzo di carne? Dov’è la vostra Tokhanovskaya? Dov’è la vostra Tsepkalo?»
Ci hanno portato in centrale del distretto di Sovetsky. Fuori tutti sono stati messi con la faccia al muro e le mani sul muro. E vicino a questo muro siamo stati così fino al mattino del giorno dopo. Periodicamente ci cambiavano di posto. Ci hanno condotto nei sotterranei, dove ci hanno sottratto gli effetti personali e i telefoni, e ci hanno ricondotto di nuovo al muro.
Al di là del muro qualcuno arrivava in macchina, metteva la canzone «Peremen» di Tsoy. E noi sentivamo come gli agenti dicevano tra loro che anche quelli andrebbero trascinati qui con i loro «cambiamenti». Una ragazza cercava il proprio ragazzo. E i poliziotti si dicevano: «Guarda c’è una cavalla là fuori, vai, mandala via!» Ecco come loro parlano delle persone.
I ragazzi venivano picchiati. Ad un ragazzo a giudicare da tutto quello che è successo, hanno rotto le costole. Una ragazza era con la gamba spezzata, gliel’hanno rotta quando la stavano prendendo. Prima di tutti venivano picchiati i più audaci. Poi sono arrivati i bus di contenimento e le persone vi venivano caricate. Era evidente che qualcuno veniva picchiato. Evidentemente ci caricavano molte persone perchè sentivo gridare: «Gambe sotto di se! Gambe sotto di se!» e si sentivano colpi di manganello e urla. I bus pieni di ragazzi partivano.
Sono rimaste solo le ragazze. Hanno iniziato a convocarci nell’edificio e proporre di firmare il protocollo. Nel protocollo c’era scritto un’assurdità: che io prendevo parte attiva nella manifestazione, gridavo «stop tarakan!» (stop allo scarafaggio). Ho rifiutato di firmarlo. Quelle che hanno formato sono stati subito lasciati andare. Quelle che si sono rifiutati, li hanno portato nel centro di isolamento per reati amministrativi.
In realtà lì dentro non sono tutti stronzi. A noi ci è capitato il poliziotto buono che ha detto: «Così finchè non vi vede nessuno, potete scrivere due sms a casa». Non so se recitava solo una parte o se era veramente una persona buona, ma voglio pensare che in loro ci sia qualcosa di umano.
A causa dell’elevato numero di persone, lì c’era una totale confusione. Ci dovevano collocare nel centro di detenzione, ma è venuto fuori che lì non c’era più posto perciò decisero di collocarci nel centro di isolamento temporaneo. Anche lì non c’era posto e allora decisero di metterci nel cosiddetto «bicchiere» una camera un metro per meno di un metro, ci hanno messo lì in quattro.
Poi ci hanno messo in una camera per due persone. Ci diedero un materasso. Oltre ai due letti già occupati da due signore, di superfici piane c’erano un tavolo, una panca e il pavimento. Dormivamo dove potevamo: sul tavolo, si può dire che era una mensola, che di traverso sul materasso. Forse non abbiamo mangiato per ventiquattr’ore, ma poi hanno iniziato a darci da mangiare.
Quando il nostro terzo giorno stava per finire e noi dicevamo che dovrebbero rilasciarci ci dicevano che «qui nessuno ci deve niente». Ti parlano come se tu fossi un qualche animale. Ma si può trattare gli animali così? È un qualche diverso tipo di persona, che comunica con noi a anche tra di loro come con dei criminali.
Passate 74 ore, la notte del 13 agosto ci hanno detto di uscire dalla camera, ci hanno messo con la faccia al muro. Ci hanno detto che non ci avrebbero ridato gli effetti personali, e nel mio caso erano il cellulare, passaporto, patente e soldi. Per qualcuno erano gli unici chiavi di casa. Due ragazze continuavano ad indignarsi, allora le tirarono due sberle e dissero che tornavano dentro.
Mi sono girata verso gli agenti e ho chiesto: «Ma che cosa fate?» e ho preso un ceffone in faccia e una manganellata sulle gambe. Il poliziotto cattivo ha chiesto: «Chi altro vuole le sue cose?», poi ha detto di correre. Noi avevamo le scarpe senza lacci, ma dovevamo correre verso l’uscita. Ci dicevano: «Lì abbiamo un «posto di blocco» se vi farete prendere, tornerete di nuovo qui».