«Le ferite del cuore non guariscono»

Le donne bielorusse raccontano di come gli eventi nel Paese le hanno cambiate

28 settembre 2020, 09:00 | Palina Kuzmitskaya, Foto: Alla Shylets, LADY.TUT.BY
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Negli ultimi mesi i bielorussi hanno dovuto affrontare molte difficoltà. E ancora non hanno avuto il tempo di fare il punto sui loro sentimenti, di parlare ed elaborarli. Insieme alla fotografa Alla Shylets abbiamo posto la domanda: «Come ti ha cambiato il mese agosto 2020?» alle diverse protagoniste. Ognuna ha la propria storia e la propria risposta. Ma hanno una cosa in comune: ognuna di loro è un po’ «Eva» di Soutine. C’è molta tristezza negli occhi, ma neanche un grammo di sconfitta.

Natalia Lubnevskaya, giornalista del giornale «Nasha Niva»

È stata ferita da un’arma da fuoco mentre documentava una protesta. Ha trascorso 38 giorni in ospedale.

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«La più grande scoperta per me è che posso sopportare molto. Anche se ho una paura folle del dolore.

Ma ho scoperto che il dolore fisico non è la cosa peggiore che possa accadere. Perché le ferite sul corpo guariscono, ma le ferite del cuore no. Si cicatrizzano.

Dicono che ciò che non ci uccide ci rende più forti. Non ci credo. Questo proiettile alla gamba non mi ha agguerrito, ho solo provato un’enorme delusione: «Sì, tutto nel mondo è davvero più che ingiusto».

La rabbia che provo adesso è il sentimento più forte, sovrasta gli altri sentimenti: impotenza, paura, disperazione. Forse li sto solo nascondendo anche a me stessa, perché queste emozioni mi rendono vulnerabile. Ma per adesso io non ho voglia di piangere, voglio agire.

Sai che cosa davvero mi porta via il terreno da sotto i piedi? Il fatto che non sappiamo più a chi rivolgerci per chiedere aiuto, non c’è nessuno che ci protegge. Solo tu stesso puoi aiutarti, i tuoi amici e, fortunatamente, come abbiamo scoperto, – i comuni bielorussi.

Quando leggo le ultime notizie, sono orgogliosa di essere bielorussa. Il nostro popolo è completamente diverso da come alcune persone lo descrivono per metterci paura e umiliarci. Non siamo affatto pazienti, non siamo fiacchi e indifferenti, non siamo disponibili a sopportare maleducazione e violenza. L’unico peccato è che il limite della nostra pazienza è traboccato solo dopo essere arrivati all’irreparabile: ossa e vite rotte.

La mia principale scoperta è come si è rivelata la nostra gente. Questo è ciò che rimarrà in me: non la crudeltà delle forze di sicurezza, ma la solidarietà del nostro popolo con lo spirito libero. E quella ammirazione, gratitudine, affinità che provo nei loro confronti è più forte della paura».

Daria Buryakina, fotografa di TUT.BY

Dal 9 agosto lavora praticamente sette giorni su sette, documentando le manifestazioni di protesta. Era nelle zone più calde di Minsk.

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«In mezzo agli eventi è difficile analizzare i propri sentimenti. E penso che dovremo ancora renderci conto di come ciò che sta accadendo ha influenzato la nostra psiche.

Inutile dire che prima delle elezioni abbiamo seguito un corso di formazione alla sicurezza, avevamo dispositivi di protezione speciali per lavorare in condizioni estreme. Eravamo tutti ironici sul fatto che difficilmente avremmo avuto bisogno di attrezzatura così seria. Dopotutto, nessuno di noi poteva immaginare cosa sarebbe successo. E non poteva essere pronto a questo.

Durante le riprese cerco, per quanto è possibile, di astrarsi dalle emozioni e di fare semplicemente il mio lavoro. Anche se può essere molto difficile: hai voglia di calmare, proteggere, abbracciare e sostenere chi ne ha bisogno. Devo tenere sempre in mente che il mio dovere è registrare gli eventi e non parteciparvi. E spegnere i propri sentimenti.

Ma è comunque spaventoso ogni volta. E ogni volta – in un modo nuovo. Stai costantemente scoprendo nuove varietà di orrore.

Posso dire che i proiettili, le esplosioni e le urla non hanno colpito la psiche tanto quanto i tentativi di impedire il mio lavoro. La paura e il risentimento non sono causati dal pericolo fisico, ma dall’ingiustizia che sta accadendo ovunque.

Quando tu, senza aver commesso alcuna azione illegale, senti le grida, le oscenità, le minacce nei tuoi confronti, è scioccante. Quando svolgi il tuo lavoro in condizioni di forza maggiore, e in risposta ti trovi ad affrontare pressioni e un’aperta minaccia da parte di coloro che, in teoria, dovrebbero proteggerti, è uno stress serio.

Ma per continuare a fare il tuo lavoro, devi controllarti. Mi permetto di rifletterci su ed elaborare le cose successe nei giorni di riposo. Ce ne sono stati pochi negli ultimi mesi e li ho passati tutti in posizione orizzontale di riposo. Ho mangiato, ho dormito e ho pianto. Ho pianto, ho dormito e ho mangiato. Lo yoga aiuta un po’: mi sembra che grazie a questa pratica la mia coscienza torni alla normalità.

Cosa è cambiato in me in questo periodo? Sono passata dall’essere introversa ad essere estroversa. Ho capito che vivo circondata da persone incredibili. Ammiro il coraggio dei bielorussi, traggo l’ispirazione dall’arte popolare e ringrazio coloro che mi hanno supportato durante il mio lavoro. La gente completamente estranea si avvicinava a me per strada più di una volta per dire grazie, mi hanno offerto da mangiare, mi hanno fatto entrare nei loro appartamenti in modo che rimanessi al sicuro e potessi continuare a fotografare almeno dalla finestra.

Cose del genere mi riscaldano il cuore e mi fanno capire che tutto questo non è invano, anche se mi sconvolgono un po’. Non ho scelto le condizioni in cui devo lavorare e non c’è nulla di eroico nel mio comportamento.

Non sono un eroe, solo un fotografo». (Sorride.)

Katerina Rayetskaya, organizzatrice di eventi e progetti, moglie di Denis Dudinsky

È stata sospesa dal lavoro insieme al marito Denis Dudinsky dopo che lui ha condannato le prime brutali detenzioni dei bielorussi. Successivamente, lo stesso Denis è stato arrestato: ha trascorso 11 giorni in Okrestsina.

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«Prima di tutti questi eventi la mia visione di me stessa era tipo: sono una pietra focaia. No, anzi un pan biscotto! Quel cantuccio italiano che non puoi rendere molle. (Sorride.)

Ma questi giorni – il 9, 10, 11, 12 – mi hanno detto molto di me stessa. Non immaginavo nemmeno che ci fosse così tanta umidità in me. Che posso affliggermi così senza freni. Che le radici del dolore di qualcun altro possano germogliare in me. Il dolore di quelli che non conosco affatto.

Ad un certo punto sono passata al formato «solo testo» e mi sono rifiutata di guardare le foto e i video: mi sono resa conto che, come si dice adesso, «non lo sopporto». Adesso riordino le informazioni in diverse categorie e mi dico: «Ok, oggi è un giorno di tristezza, domani è un giorno di crisi isterica e dopodomani è un giorno di informazioni fredde e oggettive sulla geopolitica». Altrimenti ti ritrovi sul fondo emozionale, dove mi sono ritrovata il 12 agosto.

Allora sono arrivata in centro, ho incontrato la polizia antisommossa con passamontagna in centro della città, mi sono resa conto che non potevo più avere qualcosa da fare, non ero me stessa, quindi sono tornata subito a casa per avere paura per le successive otto ore, combattere il panico, urlare e piangere… In qualche modo per percepire il fatto che tutto questo è successo davvero a noi!

La mattina ho visto online mia madre che, come tutto il Paese, non dormiva: allora tutti guardavano su Internet come venivano rilasciate le persone dal centro di detenzione di Okrestsina. Abbiamo iniziato a messaggiare e abbiamo provato la stessa sensazione: tale vuoto, amarezza, mancanza di comprensione di come vivere, tutto questo lo abbiamo già sperimentato solo una volta. Quando è morto mio nonno, suo padre, il capo della nostra famiglia.

Allora, 9 anni fa e in questo agosto, ogni giorno si iniziava con il pensiero: «Ecco, la vita è finita. Non sarà mai più come prima». E lo so: davvero non lo sarà. É impossibile accettarlo, questa sensazione di una grande perdita rimarrà con noi per sempre.

Quando Denis è stato portato via, anche se ancora non conoscevo i dettagli, il mio cuore ha suggerito subito: «Ecco, è scomparso da qualche parte. Non verrà da me oggi». Proprio come nei romanzacci scrivono: «Il cuore di una donna sente tutto».

Immediatamente mi sono ricordata che tra i miei «elementi salvati» su Facebook, avevo un intervista con un detenuto «politico» nel 2010. Lì ha spiegato la differenza tra TsIP (Centro di isolamento di delinquenti) e IVS (Centro di detenzione temporanea), che pacchi si può mandare ai detenuti, quando gli è permesso di lavarsi, come comportarsi. L’ho salvata ancora a giugno «per la crescita personale». In generale, mi piace guardare alcune serie TV su politica e lobbisti, ascoltare il discorso di Condoleezza Rice e leggere almeno del patto Molotov-Ribbentrop per appoggiarsi almeno su qualche logica… E anche su come il cotone differisce dalla viscosa e se si può usare il bicarbonato di sodio per pulire il lavandino. (Ride) Un insieme così universale di conoscenze delle donne che potrebbe tornare utile un giorno.

E ora è davvero tornato utile.

Ho deciso di trattare l’arresto di Denis come un complesso progetto di messa in scena – sì, non ci sono né piano né compito tecnico, ma tu sei un event manager e produttore, puoi farlo. È possibile che non riesci a tagliare bene il salame o imballare le cose in modo che entrino in un pacco da 5 chili?

Sai, rispetto ai problemi che dovevamo risolvere sia sul lavoro che nei nostri viaggi con Denis, questo progetto non mi ha colpito per niente. (Ride). Mi ha sorpreso, spaventato, ma decisamente non mi ha disarmato.

Cosa provo adesso?

Ho sempre sentito che davanti a me c’è uno scudo invincibile, una protezione invisibile che protegge dal male. E ora so che questa forza è alle mie spalle. Questa è la mia famiglia ed i miei amici. Quando immagini tutti i tuoi cari – sia quelli che sono vicini che quelli che non sono più con te, senti l’amore enorme di questa grande famiglia, il valore delle tue radici, della tua storia – e non hai più paura di niente».

Anna Soroka, designer, ferita durante l’arresto

L11 agosto la ragazza tornava a casa da via Moskovskaya, si recava nella zona di Gorodskoy Val. Anna dice che quando è scesa dal ponte tra lIstituto di Cultura e Piazza di Indipendenza, ha visto diversi agenti di sicurezza. La ragazza dice che ha chiesto loro come tornare a casa e questi si sono offerti ad accompagnarla. Tuttavia, quando si sono avvicinati alla Chiesa Rossa, vicino alla quale era parcheggiato un autobus, Anna – citazione: «è stata spinta lì e accusata di essere una «coordinatrice delle proteste».

Anna ha ricevuto gravi lesioni fisiche. È stata dichiarata colpevole ai sensi degli articoli 23.34 del Codice amministrativo (Violazione della procedura per lorganizzazione o lo svolgimento di eventi di massa) e 23.4 (Disobbedienza ad un ordine legale o richiesta di un funzionario nellesercizio dei suoi poteri ufficiali). È stata condannata a 20 giorni.

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«Ero molto spaventata dagli eventi che si sono svolti il 9 e il 10. Ma non potevo nemmeno immaginare che qualcosa potesse minacciarmi (camminavo da sola, nessunomanifestava accanto a me, a 200 metri da casa mia).

E quando mi hanno trattenuta, ero sconvolta. Mi sono sentita l’eroina di uno dei video che ho visto sul Nord-Est o Beslan. Dalla mia testa immediatamente è sparita l’idea che avevo dei diritti, che ero una cittadina del mio Paese, che non avevo violato la legge. Ho pensato solo a come sopravvivere. Come agire per non far arrabbiare nessuno, cosa dire per non essere picchiata. Se fai una domanda, urlano molto forte. Ok, chiaro, è meglio tacere. Ricordo che tutto il tempo chiudevo gli occhi e pregavo sotto voce: «Signore, per favore, fai in modo che quando apro gli occhi si scopre che era un sogno. Come sono capitata qui? Non può essere vero».

Ho creduto a tutto quello che mi era stato detto. E ho pensato: «Va bene, se mi danno 10, anche 20 giorni, sono pronta. Ma se mi aspettano 15 anni come questi, non ce la faccio». Sono cresciuta in una famiglia dove nessuno è stato picchiato, e ogni colpo è stato per me molto pesante. Non ero affatto pronta per questo.

Mi sono sempre consolata: visto che ora sto così male, significa che non sarà peggio di così. Ma è successo che il secondo successivo succedeva qualcosa di ancora più terribile e sembrava che non si potesse toccare il fondo.

Prima di questa situazione mi consideravo una persona emotiva con un sistema nervoso molto fragile. Ma la vita ha dimostrato che non è così. Nel punto più critico l’istinto di autoconservazione si risveglia e, nonostante ci fosse la nebbia nella mia testa e le lacrime come la grandine, cominciai a fare di tutto per uscirne.

Arrivata in Okrestsina, sono stata in grado di rimettermi in sesto e non lasciare che gli attacchi di panico prendessero sopravvento, ma ho cercato di accettare la situazione. Questo è già successo, e ora devo in qualche modo trarne il beneficio: vedere cosa riesco a fare, ricordare i dettagli di ciò che sta accadendo per poterlo raccontare ai miei amici quando tutto questo sarà finito.

Insieme ad altre detenute ci incoraggiavamo a vicenda come meglio potevamo, anche se faceva molto freddo e avevamo paura. Abbiamo cercato di scherzare sul fatto che eravamo in un certo ritiro dove sono proibiti il cibo delizioso e alcol, solo detox al 100%: «Che belle usciremo da qui, potete immaginare?»

L’unica cosa che pesava psicologicamente era che sentivamo continuamente: «Nessuno ha bisogno di voi lì. Non c’è nessuna protesta. La gente è contenta di tutto».

Ma quando sono uscita e ho visto quante persone erano in servizio vicino a Okrestsina, quanti volontari e amici ci stavano aspettando, è diventato chiaro dov’era la verità. Tante parole di sostegno, tanti abbracci e poi, oh mio Dio, qualcuno ha dipinto il mio ritratto. (Ride) E ancora una volta c’era una sensazione di irrealtà di ciò che stava accadendo, ma questa volta era accompagnata da gioia e gratitudine per tutto.

I giornalisti sono stati persino sorpresi: «Perché racconti la tua storia così facilmente e intervallata dalle battute?». Beh, a quanto pare, la mia psiche ha scelto proprio questo metodo di autodifesa. Ricordo tutto nei minimi dettagli, ma quando ne parlo, ho la sensazione di raccontare nuovamente la trama di un film. E non è più chiaro chi è passato per questo orrore: io o l’eroina di un film d’azione.

Sai, paradossalmente, questi eventi mi hanno aiutato a conoscermi meglio. Ad un certo punto ho avuto la sensazione che stessi vivendo la brutta copia e non potessi trovare me stessa. E quando ho lasciato Okrestsina, mi sono ricordata chi sono, quali sono i miei principi, che cosa è veramente importante per me. Sembra strano e divertente, ma quello che stavo cercando da uno psicologo, mi sembra di averlo trovato per caso in prigione. Mi è piaciuta come persona Anya che ho incontrato lì».

Anna Kulakova, imprenditrice, volontaria in Okrestsina

Mentre lavorava come volontaria in Okrestsina, Anna è stata tra coloro che sono stati i primi a vedere lo stato in cui le persone ne uscivano.

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«Mi ricordo che c’era una sensazione di irrealtà di ciò che stava accadendo. E solo una frase mi girava in testa: «Signore, questa è una guerra». Quello che abbiamo letto nei libri di storia e nei libri sulla Grande Guerra Patriotica, l’ho visto con i miei occhi.

Quindi è stato necessario bere un sedativo e agire – ho pianto dopo. Sai come mi salvavo quando tutto era davvero uno schifo? Guardavo non stop Harry Potter. (Sorride.)

Sì, le mie mani tremano ancora, ma non c’è più la paura. C’è la consapevolezza che il tacere adesso è criminale quanto l’illegalità che non possiamo accettare. C’è tanta voglia di non mollare in nessun modo. Anche se mi succede qualcosa di brutto… I giorni in prigione passano in fretta, e invece la coscienza e l’autostima, se le perdi almeno una volta non le ritrovi più.

Quando le mani si abbassano, ricordo come il mio figlio piccolo, che vedeva con i propri occhi come le persone venivano afferrate alla fermata dell’autobus, mentre noi passavamo in macchina, ha chiesto: «Mamma, cos’è questo?! Mamma, sono dei banditi?». Voglio che mio figlio cresca in un paese in cui non avrà motivo di farmi le domande del genere.

La sensazione che ci siamo formati come società civile e che siamo in tanti mi dà forza. Sì, da un lato c’è un orrore selvaggio, l’illegalità e il dolore che ci sono stati inflitti, ma dall’altro – persone meravigliose e unite: medici, scienziati, creativi, imprenditori, specialisti IT, operai, degni militari. I bielorussi sono pensanti, lucidi ed empatici.

Probabilmente, stavamo aspettando il momento per mostrarci. Eravamo in soggezione. Beh, siamo persone timide, cosa possiamo fare.

Eravamo timidi, eravamo timidi – e abbiamo smesso. E cosa vediamo? Un incredibile unione, la mancanza di paura, il colossale sostegno reciproco. E questo vale tutti gli orrori che abbiamo vissuto.

Circa 5-6 anni fa ho avuto la possibilità di parlare con Mikhail Saakashvili e gli ho chiesto cosa ne pensava dei bielorussi. Questo è ciò che ha detto: «I bielorussi hanno un potenziale unico. Sono europei, ma nella loro mentalità sono veri svizzeri. Sono intelligenti, laboriosi. Andrà tutto bene».

I bielorussi hanno davvero tutto per diventare i migliori. Non sarà più possibile metterci sotto il vetro e rimandarci indietro in Unione Sovietica».

Elena Dubovik, fondatrice del centro di assistenza psicologica, madre di uno dei detenuti

Il figlio di Elena era un osservatore indipendente ed era un membro dell’iniziativa «Persone oneste» – è stato arrestato ancora nel periodo di votazione anticipata proprio nel seggio elettorale (Articolo 23.4 del Codice amministrativo – «Disobbedienza a un ordine legale o richiesta di un funzionario nell’esercizio dei suoi poteri ufficiali»). Il tribunale ha condannato il giovane a 10 giorni.

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«Quando ho sentito il verdetto della corte sono rimasta, ovviamente, scioccata. Ma ho capito che ora ho bisogno di rimettermi in sesto per sostenere Vanya. Era molto importante per me che lui vedesse e capisse che sono dalla sua parte. E quando ho sentito la sua voce, con quanta calma, competenza e onestà rispondeva alle accuse, non ho potuto fare a meno di ammirarlo. Mio figlio era convinto di avere ragione e che la legge e la verità esistessero.

Naturalmente, ho sentito il dolore molto forte e la rabbia molto forte, ma l’orgoglio per lui era ancora più forte.

Quando i tuoi cari capitano in un simile imbuto, c’è una grande tentazione di rimproverarli: «Ma perché ti sei impicciato? Avresti dovuto essere più intelligente. Spero che non farai più niente di simile!»

É sbagliato.

Gli uomini in queste situazioni sono molto vulnerabili. Nei momenti difficili l’archetipo dell’eroe viene attivato ed è molto importante per loro essere proprio questi eroi. E quando le madri, le donne amate svalutano, condannano, proibiscono, questo li ferisce ancor più dell’ingiustizia e dell’illegalità.

Ho scelto subito la posizione di apertura e dopo la pronuncia del verdetto ho scritto su Facebook: «10 giorni di arresto. Vanya è un eroe!» (Piange.) Era importante per me affermarlo in modo che tutti lo sapessero. E ho sentito un enorme sostegno delle persone. Ha aiutato, anche se non potevo né mangiare né dormire, la forza appariva da qualche parte e ho resistito. Lavoravo, parlavo con l’avvocato, portavo i pacchi…

I pacchi sono una storia a parte. In piedi, in mezzo ad un’enorme fila di gente, a mio parere diverse centinaia di persone, ti ritrovi nell’epicentro di un enorme dolore comune. Ho provato il sollievo quando ho saputo che mio figlio ha condiviso il suo pacco con coloro i cui parenti non hanno fatto in tempo a fare tutta questa coda.

Ha raccontato che con lui nella stessa cella c’erano delle persone arrestate per altri motivi e che conducevano uno stile di vita diverso: alcolizzati, teppisti, ladri. È commovente che abbiano trattato Vanya e gli altri arrestati durante le elezioni con grande rispetto e riverenza. Dicevano: «Beh, noi ci meritiamo, invece voi ragazzi…». Vanya ha detto che c’è più dignità umana in queste persone che, diciamo, in molte altre. (Sorride.)

Uno dei compagni di cella di Vanya che ruba il salame nei negozi e lo rivende e si buca grazie a questi soldi, mi ha chiamata quando è uscito dal telefono di sua madre perché uno suo non ce l’ha. Ha detto: «Suo figlio è molto buono. Sta bene, non si preoccupi per favore».

Era difficile non preoccuparsi. Soprattutto per me, perché il figlio di una mia amica aveva già affrontato durissimo arresto e percosse, e poi hanno iniziato a scrivere di questo su internet…

Era difficile anche per Vanya che ha visto che nelle celle arrivavano le persone «viola» dalle percosse, ma non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Gli arrivati raccontavano delle cose terribili, e il mio figlio si è chiesto: «Che paese trovo quando esco?»

È stato rilasciato il 14 agosto – 10 giorni e 1 ora dopo l’arresto. E quest’ora è stata probabilmente la più difficile della mia vita. Ma quando ho visto Vanya, il dolore ha lasciato il posto all’amore.

Sentivo di dover fare qualcosa per coloro che si trovavano nella stessa situazione della mia famiglia. E quando nel nostro centro abbiamo iniziato a fornire assistenza volontaria alle vittime e ai loro cari, tanto dolore è scomparso… Dolore di tutto il Paese. Non solo migliaia di detenuti hanno sofferto. Ha sofferto l’intera nazione. Anche i clienti comuni che non partecipavano alle manifestazioni, dicevano: «ho paura», «sento dolore», «non riesco a dormire», «non so come andare avanti».

Mio figlio era già a casa e finalmente potevo permettermi di piangere sopra tutto ciò. C’era molta rabbia giusta in quelle lacrime, molto disaccordo: «No, non deve essere così. E non deve essere dimenticato. Abbiamo bisogno dell’ammissione di colpa e del pentimento».

Con che sensazione sto vivendo adesso? Con il dolore. E con la fede: «Non permetterò di offendere il mio Paese, i miei figli e me stessa». E questa fede è il sentimento più forte».